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Questo articolo è stato pubblicato il 04 giugno 2014 alle ore 07:40.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:51.

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Diamo alla statistica quello che è della statistica. Ma i numeri restano impressionanti. Il dato trimestrale destagionalizzato segna una variazione pari a zero tra la fine del 2013 e i primi tre mesi del 2014 nel tasso di occupazione che, invece, calava da sette trimestri.
Diminuiscono, su base annua, gli inattivi di 92mila unità e pesa, in questo dato, l'allontanamento dell'età di pensione delle donne che restano quindi occupate più a lungo (e ritardano il travaso nell'area dell'inattività). Si può anche dire che il dato trimestrale di disoccupazione destagionalizzato è al 12,7% contro il 12,5% del trimestre precedente.

Che nel dato della disoccupazione giovanile, classificato come vuole l'Europa, c'è un 60% di studenti che riducono il "tasso reale" di giovani senza lavoro al 12,3 per cento.
Tutto matematicamente corretto. Ma il Paese delle persone e non quello dei numeri è un'Italia che ha perso un quarto della base produttiva, un milione di posti di lavoro in 5 anni, che nel solo mese di aprile ha lasciato sul campo oltre 60mila addetti, quasi un terzo di tutti i posti persi nell'anno. Un popolo di scoraggiati che arriva a quasi due milioni di unità, ma un altro Paese di chi non cerca e non vuole lavorare ormai arrivato a oltre 10 milioni di abitanti. Per quanto la statistica possa essere corretta contano le tendenze e i confronti.

L'Italia di oggi è una ridotta del lavoro dove il 68% e oltre degli occupati part time lo sono diventati per forza, nell'estremo tentativo delle imprese di parare i colpi di una recessione che dura da sei anni, con le aziende che stringono i denti in attesa di una risalita.
In Italia i senza lavoro tra 24 e 35 anni sono un record negativo in tutta Europa; si sta allungando il tempo della disoccupazione sia tra chi perde il posto sia tra chi lo cerca per la prima volta. Si sta creando una pericolosa "guerra generazionale" tra l'aumento di occupati over 50 e l'aumento di giovani in cerca di impiego. È ormai tragico il divario tra Nord e Sud, dove i senza lavoro tra i più giovani sono ormai oltre il 60 per cento.

Un triste partito di maggioranza che, spesso, vota per la fuga, per l'emigrazione.
L'Italia è un Paese che sta riducendo il proprio potenziale lavorativo (e di crescita), che spreca capitale umano e fa i conti con una lunga sequenza di ammortizzatori sociali prorogati con mezzi finanziari di fortuna (salvo la cassa integrazione dell'industria, tutta autofinanziata), giunti ormai a scadenza: faticano ad essere rifinanziati (il ministro Giuliano Poletti avverte che manca un miliardo) e, soprattutto, spesso allungano l'agonia di imprese non più risanabili e già fuori mercato.

Ben venga, quindi, la riforma promessa. La drammaticità di questi numeri, però, responsabilizza ancora di più il Governo: creare lavoro non significa solo trovare lo slogan giusto, né basta la scimmiottatura obamiana del Jobs act a fare dell'Italia un eldorado per l'occupazione. Prima si capisce che lavoro significa meno fisco, più infrastrutture, più investimenti pubblici e privati, meglio è. Purtroppo una vecchia impostazione induce a pensare al lavoro come un coacervo di regole e anche il disegno di legge delega in discussione al Senato si occupa per lo più di questo. Lo "sblocca Italia" è un provvedimento che può andare nella direzione giusta; l'Ace (l'aiuto alla crescita economica) anche; il resto lo devono fare il taglio al cuneo fiscale, finora solo accennato, e la maggiore facilità di accesso al credito.

Solo l'Italia degli investimenti in nuove vocazioni tecnologiche e in una nuova idea di sviluppo sostenibile può far ripartire il lavoro di qualità per il quale si preparano oggi i nostri giovani. Sarebbe davvero una sconfitta per tutti se l'Italia diventasse fornitore netto per i Paesi concorrenti di cervelli, di entusiasmo e di speranze e luogo d'elezione per immigrazione a bassa qualificazione e, come secondo Paese più vecchio del mondo, patria di un esercito di badanti e di badati. Se non si interviene, purtroppo, non è uno scenario tanto futuribile.

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